IL TEMPO DALLA MIA PARTE

Da anni la siccità non lascia tregua. Nessuna goccia di pioggia ammorbidisce il terreno secco della mitica Jolof, terra africana densa di racconti e incrocio di popoli.
Poco più che ragazzino, Amed si vede affidare una missione importante: dovrà partire per l’Occidente alla ricerca del tamburo magico, capace di invocare la pioggia e interrompere l’arsura.
Il cielo non lascia altra speranza, ma Amed non è il primo a partire: un gruppo di giovani ha tentato l’impresa e non ha mai fatto ritorno.
Tra Francia e Italia, tra momenti spassosi e altri di intensa drammaticità, questa vicenda si legherà a doppio filo ai problemi della convivenza tra popoli diversi, fino a costituire una vera e propria fiaba di riconciliazione.

 – Signore, la preghiamo di esibire la sua carta d’identità e un titolo di viaggio valido. In questa zona può accedere solo chi deve partire.

Nessuno obietterebbe di fronte a una richiesta del genere, soprattutto se a fermarlo fosse un poliziotto e se si trovasse in un aeroporto proprio davanti alla sala d’imbarco. Nessuno, certo, a parte il nonno.

– A me, figlio di Usseinu che è figlio di Assan e nipote di Usman, che è fratello di Adama che sposò Awa che è figlia di Babacar, quel valoroso Peul che attraversò tutto il continente nero, dal Sudan fino all’ultimo lembo di terra a ovest, là dove sorge la città che oggi chiamiamo Jolof, a me tu ti permetti di chiedere una carta di identità? Faresti forse meglio a chiedermi una mappa delle mie radici, perché la mia identità è così complicata da non poter essere rinchiusa in uno dei vostri pezzetti di carta!

Il poliziotto, un giovane alto e ben piazzato sulle gambe, con due spalle degne della divisa che portava, rimase sorpreso dalla reazione del vecchio. Non fu in grado di pronunciare una sillaba, non capendo cosa vi fosse di così profondamente sbagliato nella semplice frase che aveva appena pronunciato. Era una sequela di parole che aveva scandito un milione di volte, senza problemi. Lui faceva solo il suo lavoro, non se l’era presa con l’intera genealogia del vecchio che ora gli puntava contro due pupille inviperite. Anch’io ero imbarazzato, soprattutto perché attorno a noi l’aeroporto era un poderoso via vai al centro del quale, ora, stava proprio mio nonno. Restammo per qualche istante lì, tutti e tre, a guardarci in silenzio. Erano secondi che ci scivolavano addosso come lame gelide. Volevo reagire, fare qualcosa, ma le parole non mi trovavano pronto a pronunciarle, mentre sembrava che intorno tutto si fosse fermato a osservare noi. Ancora una volta mio nonno aveva dato mostra del suo leggendario caratteraccio, davanti a un mondo che s’interrogava su chi fosse e sul perché di una reazione così sproporzionata e presuntuosa. Per non dire egocentrica.

Il fatto era che quel vecchio al mio fianco da tempo, almeno da quando potevo ricordare, non aveva altro cruccio che quello di contestare l’ordine prestabilito dallo Stato, in ogni sua forma. Era fermamente convinto che l’unico ordine legittimo e accettabile fosse quello delle tradizioni, sulle quali tutta la vita andava organizzata. Incluse le regole di un aeroporto. Secondo quella logica particolare che gli governava il pensiero, accompagnare una persona che viaggia non significava camminarci a fianco fino a una linea stabilita da un tizio con cappello e visiera. Accompagnarmi era, per lui, unirsi al mio spirito e darsi da fare a ogni evenienza, essere con me per sostenermi in un momento difficile e importante della mia vita. Altro che carte d’identità! L’agente non reagiva e questo, in modo forse inspiegabile ai più, non contribuiva a calmare il nonno che, al contrario, si scaldava e iniziava a spazientirsi sul serio. Lui voleva continuare a parlare con quel giovane e screanzato controllore di identità, spiegargli perché la richiesta fosse sbagliata e offensiva, e perché la cosa più offensiva di tutte fosse vedere nei suoi occhi lo spaesamento e l’inconsapevolezza di chi non si rende conto del peso delle proprie parole. Io cercai di convincerlo ad allontanarsi da quel ragazzo in divisa, tanto più che non c’era alcuna fretta: l’altoparlante aveva appena annunciato che il mio aereo sarebbe decollato con un’ora di ritardo. Cercai allora di presentare le mie scuse al poliziotto, facendo attenzione che il nonno, allontanatosi di qualche metro, non intendesse le mie parole e non si offendesse oltre. Proprio in quell’istante arrivò con passi pesanti un secondo agente, più basso e forse un poco più anziano del primo, con una pancia che si appoggiava floscia alla cintura dei calzoni e pochi ciuffi di capelli a puntellargli il cranio. L’uomo era stato attirato dalla voce del nonno e dalle sue grida di sdegno: non accettò le mie scuse, sostenne che il vecchio non poteva presentarle per interposta persona e, tanto per non darmi ulteriori problemi, ribadì che il nonno doveva esibire la sua carta d’identità o la sua mappa delle radici, la chiamasse pure a piacer suo. Poi si rivolse duro al nonno:

– Subito! Inutile dire che il vecchio non la prese granché bene. – E a lei cosa importa di quanto stiamo discutendo col suo collega? Chi le ha dato la parola? Lei non ha il bastone, quindi non ha diritto di parola.

Sotterrarmi non potevo, ma giuro che pensai seriamente di scavare una buca e accucciarmi dentro. Il nonno aveva irrigidito tutti i muscoli e tirato i nervi, sembrava scaldarsi per un incontro di boxe fuori programma. Io, invece, sudavo freddo. Arrivò da non so dove un terzo poliziotto, uno con le mani grandi e la faccia tranquilla; ci invitò ad andare negli uffici e chiarire là la situazione: stavamo dando spettacolo in mezzo all’aeroporto, era meglio togliersi da lì. Ci chiese di seguirlo ma il vecchio, anche questa volta, si rifiutò. Sarebbe andato negli uffici, ma non avrebbe seguito proprio nessuno: erano loro a doversi accodare perché, alla venerabile età di ottant’anni, aveva certamente vissuto e visto abbastanza per essere lui a guidare la comitiva. Non ci fu verso, bisognava adeguarsi e seguire lui che, tra l’altro, non aveva idea di dove fossero gli uffici verso i quali ci doveva condurre.

Quando arrivammo alle stanzette destinate alla polizia, tutti in coda come una famiglia di elefanti, io e il nonno ci sedemmo da un lato della piccola scrivania in un ufficio illuminato da un neon che non la smetteva di ronzare. I tre poliziotti restarono in piedi. Di fronte a noi era seduto il maresciallo, un uomo con i muscoli da fabbro e la voce da capopopolo.

Cercai subito di chiarire l’equivoco, ma il nonno mi ordinò di tacere: – Da quando i ragazzi si siedono insieme agli adulti in assemblea e, per lo più, si permettono di prendere per primi la parola? Bella domanda. Il maresciallo, con toni concilianti e gesti comprensivi, spiegò al vecchio che l’accaduto non intendeva essere un’offesa alla sua persona. Nessuno dei suoi uomini voleva mancargli di rispetto, ma l’aeroporto era un luogo sensibile, e richiedeva dei controlli molto severi. Da lì passavano merci e persone di ogni genere, non potevano non far rispettare le regole. Fu come far stridere le unghie sulla lavagna. Suo malgrado, quel maresciallo aveva pronunciato la parola fondamentale. Ecco il problema del vecchio: cos’erano le regole? E chi decideva quali andassero seguite?

– Mi piange il cuore, – gli rispose il nonno, – pensando a come la nostra società abbia voltato le spalle alle sue tradizioni, le vere regole. Oggi si naviga a vista, si salvi chi può. Non siamo più noi, abbiamo perso la nostra educazione. – Aveva abbassato la testa e la voce si era fatta flebile, lontana dal vigore con cui aveva tuonato contro i poliziotti pochi minuti prima. Forse era stanco, forse era triste.

– L’educazione era la pietra sulla quale costruivamo il futuro, era un fattore decisivo, – continuò, – un parametro indispensabile per lottare contro la povertà, l’esclusione. Abbiamo vissuto per secoli in buona pace grazie al rispetto dei divieti emanati dalla corte degli anziani. Quelle regole riguardavano tutti gli aspetti della vita: soldi, igiene, comando, giustizia ed educazione. Allora nessuno osava mettere in discussione l’integrità di un anziano. Si cresceva con le parole che accompagnavano l’osservazione, l’imitazione, l’arte, il gioco, la musica e la danza. Tutta la società era coinvolta nell’educazione dei bambini, figlioli di tutto il villaggio. Il maresciallo tamburellava con le dita lunghe sul suo tavolo, ma non si innervosì. Anzi, sembrava osservare il vecchio in modo strano, quasi con tenerezza. Cercò di rassicurarlo e di fargli notare che loro gli avevano chiesto solo un documento, e questo aveva poco a che vedere con le tradizioni, i villaggi e la corte degli anziani. Il vecchio, però, non aveva ancora finito, e non bisognava interromperlo. – A quel tempo si formava l’uomo da tutti i punti di vista: nel fisico, nel morale, e nell’intelletto. Formavamo degli uomini integri, ed è per questo motivo che mi sono irritato: non capisco perché i giovani di oggi dicano molte cose ma non sappiano più parlare. Il nonno tacque, e tutti pensarono che avesse concluso la sua relazione sulle tradizioni africane. Tutti tranne me, che sospettavo volesse godersi solo un po’ di silenzio per poter ripartire. Fu allora che il maresciallo fece per alzarsi, ma il vecchio, allungando un braccio oltre la scrivania, lo spinse con forza sulla sedia e riprese a parlare con maggior passione. I tre agenti accennarono un passo verso di lui, ma il maresciallo con un gesto risoluto della mano li fece desistere. Io tirai un sospiro di sollievo e ripresi ad ascoltare quelle parole familiari. A tratti non sembrava parlare con le persone che lo circondavano: il suo sguardo era fisso, il tono non voleva essere convincente. Voleva dire quelle cose, e basta.

– La gioventù sapeva e la vecchiaia poteva. La ricchezza degli uomini era alla base dello star insieme ma, per noi, avere non significava possedere, ma essere consapevoli di far parte di un gruppo di uomini sul quale poter contare. Era vietato pensare “io” ma molto usuale pensare “noi”. Ora, voglio solo che mi diciate a quali individui di questa comunità avrei recato danni se fossi entrato nella sala d’aspetto. Chi si sarebbe offeso? – Forse lei non si rende conto di quanto sia cambiata la società, – disse il maresciallo, – non siamo più nei villaggi di fango. Adesso lo Stato si è adeguato alle regole della civiltà moderna, viviamo nell’era della globalizzazione… – C’era forse bisogno di una civiltà per vivere?, – lo interruppe il nonno. –